by Luigi Amato Kunst
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Che cos’è la Terapia Narrativa Filosofica? Una definizione
La Terapia Narrativa Filosofica cura i difetti della visione. Insegna a guardare il mondo senza troppe riflessioni. Sembra strano, ma la maggior parte di noi ha un ‘vedere concettuale’. La TNF non è una ‘terapia’ in senso medico o psicoterapeutico, ma un percorso culturale, che ‘separa’ l’individuo dal suo problema contingente, per spostarsi verso altri ‘livelli di descrizione della realtà’. È un viaggio che muove dalla vaghezza soggettiva verso un dispiegarsi del reale più ricco e multiforme.
Per ‘Livelli di Descrizione della Realtà’ si intende un intervallo dimensionale compreso in una scala pari a 41 potenze di 10. Da una particella elementare ad un super ammasso di galassie, dove i differenti livelli descrittivi sono organizzati in modo gerarchico. Quello che risulta vago ed incomprensibile ad un livello può risultare comprensibile e sensato ad un livello superiore.
La ‘terapia narrativa filosofica’ non si occupa di costruire narrazioni, come avviene per la terapia narrativa classica, ma di individuare e tracciare le essenze dell’agire umano, concetti a fondamento di dinamiche e situazioni, in relazione alle passioni (pathe) ed alle verità comuni a tutti gli uomini. Questi concetti sulla natura umana, possono essere tracciati, investigati ed approfonditi attraverso la riflessone del mito, la tragedia, l’epica, la letteratura, l’arte.
Per i Greci, il mondo sensibile non costituiva verità, ma illusione. La vera conoscenza (episteme) era la contemplazione delle essenze immutabili ed eterne. La sapienza degli uomini, legata alle cose che mutano, era opinione (doxa), e secondo la metafisica di Platone, l’opinione non è ignoranza, ma ‘una via di mezzo’ (metaxu) tra la conoscenza piena dell’essere e l’ignoranza assoluta del nulla.
Platone è il pensatore dell’identico, della rigida identità della sostanza. La sostanza di Platone diverrà la base dell’ontologia di Aristotele, ossia la sostanza in Aristotele sarà ciò che regge il mutamento. Per i Greci l’esperienza della verità è allora l’esperienza di ciò che non muta.
Oggi diremmo l’opposto, e cioè che l’esperienza del mutamento è l’esperienza della verità. Dove è la verità se non nello scambio di ‘discorsi’ con gli altri e nelle esperienze che ci trasmettono, nell’idea di essere interdipendenti e dunque continuamente modificabili dalle relazioni e dalle esperienze che gli altri ci comunicano?
E poiché l’episteme, la conoscenza, è divenuta sapienza del mutevole, non è forse l’ignoranza la pretesa di restare nell’identico, il non voler essere modificati dagli altri, il non condividere ed essere affetti dalle esperienze che questi ci trasmettono? Il pretendere di ‘permanere sempre nell’uguale’ delle proprie idee, convinzioni, credenze, il non riuscire a spostarsi mentalmente? Questa incapacità a varcare i confini del proprio orizzonte pur avendoli intravisti, è quello che Aristotele chiamava akrasia, e che a mio avviso rappresenta la definizione più rigorosa di quello che definiamo come ‘ignorare la cosa dopo averla vista’. L’ignorante è tale non perché non sa, ma perché ‘ignora’ quello che deve fare pur sapendolo.
La realtà è influenzata dal linguaggio, in senso biunivoco e questo suggerisce che le persone che mancano di un linguaggio adeguato, possono non aver raggiunto un certo livello di descrizione della realtà.
I limiti del mio linguaggio sono I limiti del mio mondo
(L. Wittgenstein).
Un esempio estremo è quello di John Searle: se uno entra in un ristorante ed ordina una birra, sarebbe insensato usare un linguaggio chimico fisico. La struttura ontologica di una situazione apparentemente così banale è talmente complessa rispetto al linguaggio chimico-fisico che la situazione darebbe indescrivibile. Nel salire di livello organizzativo nella scala del reale, il linguaggio e la sua complessità si adeguano e si modificano.
Il linguaggio descrittivo ha un’ampiezza non indifferente. Possiamo andare dal semplice blaterare senza senso alle più sofisticate descrizioni letterarie. Maggiore è la nostra capacità descrittiva, la nostra ricchezza linguistica e la nostra capacità di connotare, più ricco diventa il mondo che abitiamo. ‘Vedere’ in greco è idein, da cui idea, per cui ‘vedere il mondo ’ ha un’accezione ed un’estensione metafisica, a paragone della sola vista sensibile legata all’occhio come organo di senso.
La descrizione è un vedere, che si distacca dal linguaggio povero e scarno del sentire, per diventare invece logos, legame con il mondo. Il vedere afferra l’oggetto per come esso appare alla coscienza, nel momento del suo apparire. La descrizione è apertura al senso, ricchezza, negoziazione di significati, ¾ il Dazwischen di Buber) ¾ .
L’età antica aveva costruito il sapere sulla ricerca metafisica delle essenze, ossia delle cose in sé. L’età moderna ha costruito un mondo a partire da universali, come lo Stato, il Diritto, la Natura, la Scienza, la Tecnica, l’Economia, mentre nell’epoca post-moderna gli universali sono stati delegittimati. Libertà, diritti umani, democrazia, sono valori che si sbriciolano tra le dita e non siamo più indicare un valore universale attorno al quale tutti ci riconosciamo. Il passaggio dalla tecnica alla tecnologia ha prodotto un’ulteriore frammentazione e disgregazione degli universali, perché la tecnologia non è più tecnica al servizio dell’uomo, estensione delle capacità umane sottomano, ma insieme di procedure di cui l’uomo è parte e che non controlla.
La tecnologia in sé non è un universale. Può vendersi come un universale, ma è solo un insieme di metodi e funzioni. La tecnica è un universale antropologico ma la tecnologia è solo un apparato, di potere, diversificato, ma non porta con sé alcun senso, e per questo non è un Universale. Dunque un Universale è un portatore di senso (Botturi).
Se pensiamo all’idea di Natura, Diritto e Stato, allora possiamo trovare forme di aggregazione umana. La tecnologia di per sé lega solo in senso di far funzionare un certo apparato, ma non contiene e non trasporta alcuna unità o forma di identità, e dunque non ha alcun senso.
Ed ecco che il mondo diventa solo una grande sfera, tecnologica, globale, ma non è un ‘mondo umano di senso’. Alla sfera tecnologica sfugge ogni relazione umana, ogni storicità, memoria, vissuti, emozioni. È da questo punto che la filosofia può incominciare: dalla ricerca di universali della natura umana, forze che stanno a fondamento, che guidano e determinano l’agire umano.
Ne esce una metafisica molto ridimensionata, perché non è più sulle cose in sé, sulle essenze immutabili, e neppure su universali antropologici come lo stato, la scienza, la natura, ma piuttosto sulle categorie della natura umana, il generarsi delle passioni dallo scontro dell’uomo con le poche certezze di cui dispone, ma che ostinatamente ‘ignora’, come il dolore, l’invecchiamento, la malattia, la morte, il divenire, l’illusione. Queste categorie, sono rimaste pressoché immutate, come Heidegger fa notare, da quando Aristotele ne ha fatto una descrizione dettagliata.
Proviamo con un altro esempio. Supponiamo che A e B stiano camminando lungo una strada lunga duecento metri. A, non conosce quella strada ed è solo preoccupato di percorrerla per andare dal dentista. B, invece, conosce ogni famiglia che abita in ogni appartamento di ciascun palazzo, ogni negozio ed il suo proprietario, ogni bottega e la sua storia. Conosce chi ha costruito e progettato ciascun edificio. Sa quando è stata fatta l’ultima pavimentazione stradale. Per certi aspetti si può dire che A e B stiano percorrendo la stessa strada, per altri aspetti A e B sono in luoghi molto diversi. Mentre per A la strada è solo un pensiero, un camminare fino a, un atto psichico, qualcosa a cui si rapporta in funzione delle sue credenze, per B la strada è una realtà oggettiva, su cui può costantemente riflettere. La strada smette di essere pensiero per diventare oggetto. E questo accade solo grazie ad un’approfondita conoscenza della strada, dei suoi abitanti, dei suoi negozi, delle botteghe e delle persone che ci lavorano. La componente psichica, di B, si fonderà sempre di più con il mondo, con una tale ricchezza di informazioni da far quasi scomparire l’Io di B nella sua interrelazione con il mondo che lo circonda. Questo processo è detto di familiarizzazione con l’oggetto, e presuppone un elemento che non viene impiegato in psicologia: la cultura del mondo.
La conoscenza e lo studio dei dettagli che riguardano l’oggetto, ci consente una tale ricchezza di linguaggio, che possiamo raggiungere livelli di descrizione molto più complessi e dare un senso a cose che prima non ne avevano alcuno.
Lo studio e l’approfondimento della natura umana in letteratura, ad esempio, in filosofia, nella tragedia e nel mito, nella narrativa, ci mette a contatto con qualcosa che è descritto in modo soggettivo da ciascun autore, per cui, attraverso l’innumerevole serie di adombramenti attraverso i quali, come dice Husserl, l’essenza dell’oggetto si manifesta.

Si ‘traccia’ e si insegue nel corso della letteratura, nell’arte, la narrativa e la filosofia, quell’essenza specifica nelle sue molteplici interpretazioni, per raggiungere l’universalità di quella componente della natura umana, e contemplarla nella sua essenza, come la processione delle anime guidate dagli dei che si recano a contemplare il bello in sé, il giusto in sé e insomma gli enti nella loto pienezza (ta onta), l’essere nella sua pienezza e nella sua purezza non contaminata da elementi sensibili. e degli dei nel Fedro,
Ad esempio, nel seguire una persona che sembra temporeggiare e prendere tempo, che appare incapace di decidere, tenderei ad incoraggiare l’esplorazione ed il ‘tracciamento’ dell’accidia in letteratura, dell’ignavia, e dei suoi sinonimi, come componente universale della natura umana, anziché incoraggiare la persona a vedersi come implicitamente un ‘cattivo soggetto ’.
Il posporre ed il temporeggiare di Amleto sono un comportamento accidioso? John Milton, ne Il Paradiso Perduto, cita un angelo caduto ‘in questo modo Belial, suggeriva un’ignobile accidia, pacifico torpore, non pace’ usando ‘parole abbigliate dalle vesti della ragione’ (Libro II. 79). L’accidioso non vive in pace, in armonia, ma in un conveniente stato di non conflitto opportunistico.
Quanto spesso il benevolo è convinto di avere una sincera compassione? Il benevolo si può ‘stanare’ perché non decide, non fa mai grandi gesti, non prende posizione se non per mera convenienza. La sua motivazione, alla fine, è generata dall’intenzione di evitare conflitti, non decidere nulla, non affrontare la responsabilità del suo ministero, sia esso sacerdotale, di genitore, di leader di manager. L’accidia di Don Abbondio.
E di seguito andare alla ricerca degli ‘antidoti’ ossia delle forze che si oppongono all’accidia nella storia della narrazione umana.
Ho fondato questo modello su tre elementi principali:
1. La Terapia Narrativa Filosofica non è una ‘terapia’ ma piuttosto un’investigazione sulle essenze della natura umana, un avvicinamento al reale grazie all’ espansione del linguaggio descrittivo.
Questo metodo rispetta sia l’agire che la dignità di ciascun cliente ma richiede che il cliente intervenga attivamente per salire di livello di descrizione. L’individuo non ha ‘difetti’ o ‘non è abbastanza’ in nessun caso ed in alcun modo, ma è semplicemente inconsapevole dell’esistenza di un livello di realtà più elevato, più organizzato. Attraverso l’investigazione sulle ‘essenze’ può riflettere sulle proprie personali problematiche da una prospettiva più ricca e più colta, quindi più universale.
Le persone che si impegnano in un percorso di terapia narrativa filosofica sono persone che vanno alla ricerca delle forze che governano l’esistenza umana.
2. La terapia narrativa filosofica non si concentra sul problema specifico della persona ma lo usa come ‘innesco’ per guadagnare livelli di descrizione più alti.
Nella terapia narrativa filosofica i problemi muovono dall’individuo verso essenze universali della natura umana attraverso l’identificazione di parole chiave.
In questa forma di dialogo il cliente viene esortato a non compiangersi, a non darsi la colpa e a non accusare la cattiva sorte, ma a considerare la fortuna avversa come la ‘fragilità del bene ’(Nussbaum) che chiede uno sforzo per guadagnare la conoscenza della realtà e della natura umana.
La Terapia Filosofica della Cultura (o la terapia narrativa filosofica) connette gli individui con livelli descrittivi più elevati, con percorsi e schemi comportamentali di cui non sono consapevoli, che non percepiscono come parte di un qualcosa di più vasto, e che quindi non riescono a cambiare.
3. La Terapia Narrativa Filosofica considera il cliente come non-esperto del suo livello di realtà.
Nella Terapia narrativa Filosofica viene rimossa la distanza terapeuta /paziente ed il filosofo ‘guida’ il cliente attraverso un cammino culturale.
Queste tre idee fondano la relazione culturale e la funzione della filosofia nella terapia della cultura. Il fondamento di questo procedimento richiede al cliente di guadagnare un livello più elevato di visione della vita, visione che gli sfugge, che non ha, ed in questo la Terapia Narrativa Filosofica si differenzia profondamente dalla Terapia Narrativa tradizionale.
Concetti chiave e metodologia di approccio
Operare la distinzione tra ‘l’individuo con problemi’ e, ‘realtà che lo circonda’ è di importanza vitale per la terapia narrativa filosofica. Un’identità del Sé dannosa o autodistruttiva, può essere rimossa solo se il Sé entra in contatto con l’universalità degli impulsi e delle essenze che costituiscono la condizione umana e con la ricchezza del reale che lo circonda.
Il problema individuale dev’essere visto da una prospettiva più ricca di connessioni. È solo relazionandosi all’universalità che l’avvenimento reale e contingente dell’individuo può essere compreso nella sua pienezza.
Per fare questo la terapia filosofica della cultura ammette alcuni principi fondamentali:
- La filosofia ritiene che alcuni dei disagi che affliggono gli individui non sono dati da disturbi mentali ma da fraintendimenti delle strutture del reale.
- La realtà può essere ‘stratificata in livelli’ secondo un ordine di grandezza di 41 potenze di 10, in cui i livelli sono organizzati gerarchicamente. La realtà è influenzata da e comunicata attraverso il linguaggio, il che suggerisce che persone che mancano di un linguaggio descrittivo appropriato possono mancare un corrispondente livello descrittivo di realtà.
- Avere una narrativa comprensibile vuol dire essere in possesso del livello di organizzazione della realtà a cui si fa riferimento. In altre parole, storie e narrazioni possono aiutarci nella nostra esperienza solo se l’esperienza è compresa in uno spettro più ampio di caratteristiche generali e dinamiche dotate del linguaggio appropriato.
- La scuola del pensiero post moderno considera la realtà come un concetto personale. In questo caso la verità è intesa nel senso Kierkergaardiano di ‘verità per me’, ma non dovremmo confondere questa verità per ciascuno di noi, con i temi universali (topoi) che dominano e caratterizzano l’esistenza umana. La verità della morte, della malattia, del divenire, della sofferenza, l’accidia, l’invidia, l’etica, l’odio, la vendetta, l’amore, la compassione, il desiderio, l’arroganza, la hybris, sono temi universali validi in ogni tempo e luogo. Possiamo seguirli e tracciarli attraverso l’epica, la tragedia, il mito, la letteratura, la filosofia.
Lo scetticismo postmoderno sull’idea di un linguaggio neutro e verità universali non tiene conto dei ‘topoi’ o temi universali, che sono verità difficilmente contestabili e valide per tutti gli esseri senzienti. Ridotta alla sua essenza è difficile negare la verità della nascita, della morte e del divenire, così come è difficile negare che i temi universali del comportamento umano siano definiti dal rapportarsi dell’uomo a tali verità. Tali temi costituiscono indubbiamente una metafisica debole, meno legata alle verità a universali e necessarie, a priori in senso assoluto, ma in senso più relativo rappresentano ‘qualcosa che non muta’, della natura umana, e quindi dislocate rispetto alla psicologia perché non si tratta di atti mentali, ma di temi universali, e quindi, in un certo senso, di essenze. Ma non siamo neppure nel campo della logica pura. Queste ‘essenze’, infatti, non sono predicati logici ma predicati esistenziali e l’esistenza non è logica, come ci ricorda Proust
‘La pura logica è impotente a dirimere questioni esistenziali’
Marcel Proust, La parte di Guermantes
Il problema qui affrontato non è psicoanalitico, (il rapporto con l’inconscio) ma fenomenologico, (il rapporto con le essenze del reale), dove per essenza si intende ciò che è essenziale, ciò che non muta, il sostrato degli accidenti. Che x soffra di gelosia vale per tutti gli x, [e si scrive ∀ x: P(x) or (x) P(x)], che soffrono di gelosia, sia che ad x si assegni il nome John, sia che sia Otello. Il sentimento della gelosia è sempre lo stesso nelle sue diverse declinazioni, forme e manifestazioni, mentre il fatto che John sia geloso è del tutto accidentale in filosofia, mentre è essenziale in psicoterapia.
Che John abbia dei gravi problemi matrimoniali ha rilevanza in filosofia solo nella misura in cui John sappia di cosa sta parlando quando si riferisce al suo matrimonio. Che sia consapevole che sia un agire cooperativo condiviso (shared cooperative agency), una forma di agire collettivo (joint action). Ossia che John non si riferisca a concetti vaghi, ma sappia definirli. Che poi John sia sposato con Mary è decisamente accidentale in filosofia.
Il matrimonio, o una convivenza, non è esattamente ‘vivere insieme sotto lo stesso tetto ’ ma un fatto istituzionale, come lo definisce John Searle, un’invisibile struttura della realtà sociale, che può essere definita ‘un’essenza’ per accordo umano, ossia qualcosa che non muta e che è indipendente da qualsiasi esistenza particolare o meno di John e Mary.
Questo non è un problema narrativo o di storytelling, ma un problema di avvicinamento alla realtà. Non sono convinto che il cosiddetto storytelling o l’auto narrazione possano funzionare se non c’è un approfondimento della realtà.
Infatti, come possiamo spiegare e comprendere il comportamento umano se ne ignoriamo le forze universali che lo controllano?
È molto interessante vedere quanto appare semplice la soluzione del problema quando smettiamo di considerarlo come parte di noi, come proiezione mentale, e modifichiamo la gerarchia di livello, padroneggiando livelli di realtà più elevati, e ampliando lo spazio linguistico, ottenendo una più alta capacità di connettere temi e seguire tracce. La conoscenza e la combinazione sono le chiavi.
Come dice James Patterson, “Più ne sai, più probabilità hai di combinare cose, ed avere un’idea che sfonda”. Scrivere la tua storia e riformulare la tua vita è tutto questione di sapere le cose e combinarle insieme.
2 Tecniche della Terapia Narrativa Filosofica
1. Tecnica dell’arricchimento
Come filosofo, il lavoro consiste nell’aiutare il cliente ad esplorare nuovi territori. Nel corso di questo viaggio di scoperta, molte cose vengono alla luce.
La mente del cliente deve restare aperta. Leggendo (od ascoltando) un autore, la mente non dovrebbe prendere posizione o essere inquinata da pregiudizi, e pensare che chi la pensa diversamente è nel torto. Nel Lam-Rim Chemno si fa l’esempio della mente come un recipiente sporco, contaminato dalla parzialità e dal pregiudizio.
Nella prima fase l’obiettivo è di rendere il cliente libero da pregiudizi. È piuttosto comune che quando si assegna un libro da leggere, come un romanzo, il cliente faccia commenti negativi non richiesti, soprattutto in fase di lettura. Questi commenti mostrano spesso una certa parzialità o una forma di pregiudizio. Questa fase è definita come una resistenza.
È un po’ come parlare con qualcuno che ti finisce la frase prima che tu l’hai completata. Vuol dire che la sua mente non è aperta.
Aiutare i clienti a sviluppare la loro conoscenza gli permette di scoprire nuovi significati, combinando diverse cose, tutti elementi per una buona riuscita del primo stadio della terapia culturale. Se provo ad interpretare le esperienze senza lo stadio dell’arricchimento, è come un motore che gira a vuoto, perché le idee nuove e la creatività derivano dal combinare nuove cose.
Il filosofo identifica alcune parole chiave, che costituiranno il punto di partenza verso il secondo stadio.

2. Tecnica del distacco
L’idea alla base della tecnica del distacco è che è più semplice cambiare od allargare la nostra visione del mondo, se riflettiamo su quello che i grandi scrittori hanno scritto sul tema in questione, prendendo una certa distanza senza essere personalmente coinvolti. Per esempio, se ad una persona risulta facile essere inattiva o pigra o incapace di prendere decisioni, allora può essere utile allargare la conoscenza sull’accidia e l’ignavia e l’etica, sull’akrasia e la virtù, considerando l’essenza dell’agire e del decidere come temi dell’esistenza umana.
Le persone sono spesso molto più concentrate sui loro difetti di carattere che sul rimedio per uscirne. Ed il rimedio in genere risiede all’esterno della gerarchia aggrovigliata della loro vita, ad un livello più alto di descrizione della realtà.
Questo secondo passaggio serve ad incoraggiare il cliente a non dare troppa importanza alle definizioni moralistiche auto-inflitte e fargli invece comprendere quanto facile può essere cadere in questo atteggiamento di autocommiserazione.
3. La tecnica dell’attenzione
Questo procedimento lavora ad un livello superiore di descrizione, riguarda la riflessione profonda sul comportamento umano, tracciando, connettendo e comparando le parole, i termini, i modi di dire, le locuzioni e le espressioni che riguardano un topos, nella letteratura. Parole che esprimono le forze che stanno alla base del comportamento umano. Questa ricerca è un avvicinamento progressivo al vero significato del tema (topos) e della sua verità, leggendo, studiando, scrivendo, confrontandosi, interagendo.
Per certi aspetti questo procedimento è simile alla meditazione, e richiede una certa disciplina o diligenza. Più si entra nei dettagli, più ci si avvicina alla verità. Non è infrequente che il cliente tenti la fuga a questo stadio del processo. Il problema in questo caso sta nell’attaccamento. Il filosofo deve essere deciso e tenere ferma la barra e la direzione.
Quando il cliente intuisce il suo reale problema al quale si dà un nome, con una terminologia rigorosa, tenta in tutti i modi di disimpegnarsi, evitando il procedimento di ricerca del topos.
Questo livello superiore richiede un impegno dal cliente. Qui si assiste ad un passaggio dalla passività all’azione. L’esperienza di riflettere profondamente, combinando cose diverse, impegnandosi per uno scopo, genera nuove intuizioni, idee, che possono condurre ad accettare che esistono visioni della vita diverse dalle nostre e degne di rispetto. È un processo creativo che può essere esperito solo dal cliente.
Come esempio di tecnica di salita di livello, immaginiamo una persona che percepisce la sua vita come priva di senso. Continua a fare le sue cose ma non porta mai realmente a compimento qualcosa, e sente che la vita le sta scivolando tra le mani. Si chiede se c’è una vita là fuori nel mondo. Una vita degna di essere vissuta. Ha un buon lavoro ed una vita accettabile. Ma si sente infelice e senza pace. Tutto sembra annoiarlo e nulla dargli una vera soddisfazione.
Basandosi su questa breve descrizione non è chiaro quale possa essere il problema. Il filosofo dovrebbe incominciare cercando parole chiave, temi, topoi, piuttosto che accettare una semplice affermazione del tipo: “Mi sento piuttosto agitato e infelice”.
Il filosofo propone una parola chiave. Estetica. Oppure accidia. L’approccio estetico si oppone a quello etico. Il carattere estetico è caratterizzato da immediatezza e desiderio. Ma non appena l’esteta raggiunge l’oggetto del desiderio si sente insoddisfatto e va alla ricerca di qualcos’altro. Alla fine, ne emerge che il carattere della personalità estetica riguarda l’oggetto de desiderio, che in effetti coincide con il desiderare. L’estetico desidera il suo stesso desiderio. Ma è una trappola. Uno schema comportamentale. Essere un estetico vuol dire vivere nella disperazione. Il rimedio è l’auto-determinazione, la scelta, la decisione, l’indipendenza dal desiderio, e l’assunzione di responsabilità per la sa vita.
Kierkegaard annota nel suo Diario del 1835: “ Ciò che in fondo mi manca – scrive – è di veder chiaro in me stesso, di sapere ‘ciò ch’io devo fare’ e non ciò che devo conoscere, se non nella misura in cui la conoscenza ha da precedere sempre l’azione. Si tratta di comprendere il mio destino, di vedere ciò che in fondo Dio vuole ch’io faccia, di trovare una verità che sia una verità ‘per me’, di trovare ‘l’idea per la quale io voglio vivere e morire’ […] ma per trovare quest’idea o meglio per trovare me stesso, non serve a nulla l’ingolfarmi ancor più nel mondo. Era proprio questo ch’io prima facevo”.
Søren Kierkegaard stabilì lo scopo primario dell’esistenza: la verità per noi, qualcosa che dobbiamo trovare, e poi Nietzsche disse: “Diventa ciò che sei” (La Gaia Scienza).
Oggi siamo circondati da suggestioni ridondanti, stimolazioni esterne, che si esauriscono nel fare qualcosa, comprare qualcosa, imparare qualcosa. Questo ci rende blasé, come diceva Georg Simmel, ossia siamo incapaci di reagire in modo appropriato per un eccesso di stimolazione.
Questa tecnica è un modo eccellente per scavare, e comprendere i fondamenti di un evento o d uno schema comportamentale.
4. La tecnica del ritorno
Riguarda il ridiscendere, essere in grado di decidere e scegliere della nostra vita.
L’incredibile potere della filosofia, sta nell’addestrare la nostra mente. Rimanere stabile e a fuoco su eventi specifici, avvicinandosi con lenta progressione, raffinando, disvelando, ragionando, dubitando, fintanto che con la reale natura del tema che stiamo investigando, e questo è qualcosa che assomiglia all’afferramento del vero. La verità, in questo caso, è qualcosa di comune a tutti gli uomini, e non corrisponde alle nostre opinioni personali, credenze e sentimenti.
La terapia della cultura è una tecnica per padroneggiare la nostra mente e la discesa, o tecnica del ritorno riguarda il ritornare al punto principale. Il tema principale (topos).
Molte persone sono molto brave a cavarsela nel lavoro, ma fanno fatica a gestire decisioni che riguardano la loro vita. Sono come prigionieri delle loro paure, dei pensieri e degli schemi comportamentali, ed è piuttosto raro che ne siano consapevoli. Spesso cercano ragion all’esterno per giustificare i fallimenti. È quasi sempre la colpa di qualcun altro.
Qual è il problema qui? Queste persone non ‘afferrano’ le forze sotterranee in gioco nel loro agire.
Perché il comportamento di Amleto appare così strano? È indeciso e preferisce il posporre all’agire, temporeggia anziché mettere in atto la vendetta, o reagire contro Fortebraccio, o gestire Ofelia. Perché Amleto è prigioniero di una forza potente che ostruisce l’azione, forse il complesso di Edipo, forse la paura. Una forza che lo rende tormentato ed infelice.
Ma che cosa c’è di così sublime nella tragedia di Amleto? Perché mostra e mette in scena qualcosa dell’umano agire che è universale, ossia comune a ciascuno di noi. La mancanza di libertà. L’essere prigioniero di forze che non possiamo controllare. E queste forze bloccano l’azione. T.S Elliot scrive “è un sentimento che egli non può comprendere; non lo può oggettivare, che resta così ad avvelenare la sua vita e ad ostruire l’azione” (T.S. Eliot, The Sacre Wood).
Per cui, assistendo all’Amleto, potremmo facilmente cominciare a comprendere che forze inspiegabili controllano la nostra vita e che possono paralizzarci. Non siamo liberi.
Affermiamo qualcosa, ma la nostra mente ci conduce a farne un’altra, Forti emozioni possono bloccarci l’azione se non le ‘vediamo’ e non le riconosciamo. Se non le chiamiamo per nome.
Che cosa vediamo quando guardiamo Amleto? Certamente non noi stessi perché potremmo trovarci di fronte a resistenze incredibili. Ma cosa accade se cogliamo in maniera profonda quello che rende Amleto così indeciso? Cosa accade se comprendiamo il dolore, la disperazione e la frustrazione che il comportamento di Amleto ha causato in Ofelia?
Freud sosteneva che l’atteggiamento indeciso di Amleto era causato da un forte complesso Edipico nei confronti della madre. Forse. Non saprei dirlo. Ma possiamo decidere di percorrere questo sentiero. Chie era Edipo, l’eroe della tragedia di Sofocle? Leggendo la tragedia ci rendiamo conto che Edipo non aveva l’intenzione né di uccidere suo padre né di sposare la madre. Nella sua mente, Edipo vedeva Laio come il re, e non come suo padre, e Giocasta come la regina, e non sua madre.
Tutto nella tragedia di Sofocle e di Shakespeare riguarda il fraintendere.
Ed il fraintendere il come le cose sono è chiamata ignoranza nella filosofia Buddista. La nostra sofferenza è generata dall’ignoranza. Di conseguenza, noi agiamo e facciamo cose, partendo da presupposti spesso fraintesi, e compiamo azioni e causiamo effetti generati dal fraintendimento.
Considerazioni finali
la tecnica della terapia della cultura è complessa ma essenziale per acquisire una vita più significativa. Cambia le nostre prospettive e amplia il nostro mondo. Ci rende più ricchi in cultura e nella capacità di esprimere le nostre emozioni nelle relazioni. Ci rende più forti. Possiamo tranquillamente passare un Sabato sera con un buon libro, godendoci la serata. Possiamo scrivere in modo più rigoroso e preciso quello che pensiamo. Possiamo essere più concentrati, meno stressati nel traffico e in una lunga coda. Possiamo, cioè, semplicemente tirare fuori un libro dalla tasca, e cominciare a leggere.
Possiamo costruire una storia per le nostre esperienze che si apra ad un senso. Non siamo limitati ed esistono infinite narrazioni che possiamo sottoscrivere e che possiamo scambiare con gli altri. Possiamo proporre nuove prospettive sulla nostra vita, e possiamo immergerci in profonde argomentazioni sulla natura umana, e così diventiamo più aperti, meno egoisti, più compassionevoli. Percepiamo le nostre vite diventare significative e degne di essere vissute.

Bibliography
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Aristotele, Retorica, Libro II
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Górzna, S., 2014, Martin Buber father of the philosophy of dialogue. 10. 45-53.
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Heidegger M., Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, 1924, Adelphi, 2017.
Husserl E., Ideen Zu Einer Reinen Phänomenologie Und Phänomenologischen Philosophie: Allgemeine Einführung in Die Reine Phänomenologie, De Gruyter, 1994.
Platone, Fedro.

Luigi Amato Kunst is a philosophy consulting analyst. Specialized in Theoretical Philosophy, Phenomenology and Philosophy of Mind, he is the founder of PHILOACTIVA organization.