Friday, December 8, 2023

Io gioco, i bambini di Copenhagen

io gioco, jeg lege

Hvepsebo, vuol dire alveare, Krausesvej, Østebro, quartiere di Copenaghen; Luglio 2011. E’ una costruzione in parte del 1960 in parte Bauhaus, connessa da un’ala vetrata. Ci sono circa cinquanta bambini tra i due e i sei anni, che devono aspettare i genitori e imparare la vita Danese.

     I bambini sono divisi in tre gruppi : Krausestuen, Birkenstuen e Alfredstuen. Circa 15  per gruppo. Ogni gruppo ha un paio di pedagoghi e alcuni aiuto pedagoghi. I pedagoghi di Birkestuen sono Nicky, un campione mondiale di skateboard, Mille, e gli aiuto sono Bettina, che di solito si affloscia in punti di disperazione esistenziale durante le riunioni di gruppo, per cui Bettina è spesso malata, e allora c’è un avvicendarsi di giovani aiuto pedagoghi, sui vent’anni, che vanno e vengono, che arrotondano, che mettono via i soldi per il viaggio e che di solito non salutano.

     Sì, una delle cose caratteristiche di questo posto è che la gente non saluta; il livello di cattive maniere  è sconcertante. Salgo le scale è il 10 luglio e arrivo al mio nuovo dipartimento: Alfredstuen: pedagoghi Lajla e Annelene, aiuto pedagogo Tanja. Tanja non c’è…anzi non c’è quasi mai, perché ha la madre malata, il cane malato, perché è molto innamorata, perché è così.

   Nell’ingresso, nel piccolo spogliatoio con i piccoli armadi per i piccoli vestiti incontro Jeppe, un treenne tranquillo, che sta appoggiato allo stipite della porta e mi dice la prima cosa del primo giorno della mia prima prova di re-inserimento lavorativo del primo momento di questo esperimento

Quando viene Agosto, chiede preoccupato. (Hvornår kommer August?)

Beh, siamo al 10 Luglio, penso –  Om tyve dage (In venti giorni, circa) rispondo in danese.

    Ma la sapienza dei grandi è assoluta  per cui Jeppe si sdraia su un tappeto e ripete a qualcuno che August arriverà fra venti giorni. Dopo cinque minuti arriva August, che non è un mese ma un bambino. Jeppe non mi ha mai guardato con aria da deficiente, ha semplicemente lasciato accadere questo episodio, asincrono, in cui è normale che i grandi, specialmente quelli incontrati la prima volta,  diano risposte astratte.

     Sulla lavagna in corridoio c’è scritto “Benvenuto Luigi” e questo è molto scandinavo; in Italia nessuno scriverebbe una cosa simile. I bambini sono tanti, confusi, impegnati in strane cose; c’è un lungo momento in cui arrivano i genitori, e si chiedono chi sei. Gli viene spiegato, Luigi è un filosofo, e questa cosa li mette tranquilli, come se adesso il Kinderheim avesse un filosofo.  Ma poi il filosofo viene messo a guardare i bambini, a cambiare pannolini e ad apparecchiare e sparecchiare la tavola. Non c’è molto di teoretico in questo. Comunque il filosofo c’è.

     C’è Matthis dagli occhi spalancati, c’è Yaqub dai movimenti scoordinati, c’è August prigioniero della sua infinita tristezza, c’è Palle che corre dietro Sophia sembra un cicisbeo, c’è Linne Malu che è di una dolcezza infinita, c’è poi anche Philip, un duenne deciso che se s’incazza ti pianta un casino degno di un birraio che gestisce un kro (una taverna). C’è Rosalina, con le guanciotte rosse e gli occhi grandi e spalancati che ti osservano, c’è Laura

che è una principessa tranquilla. C’è Sarah che ha un vocione incredibile, e c’è il papà di Sarah, Kevin, che cammina sempre peggio, perché ha una distrofia, ma c’è anche la madre di Sarah, grande e vociante come Sarah, che è una single in cerca di un nuovo uomo. Ma ama ancora Kevin e gli sta molto vicino.

     Augusta che ha perso il padre, chiusa e affascinante, cattiva e delicata, di nascosto, colpisce, pizzica…non so che fa, non l’ho mai vista fare, ma ho sempre visto gli effetti. Qualcuno poi se ne sta in disparte, meno carismatico, non so..Sixten, non parla, anzi parla ma ha dei danni all’area di Broca, per cui parla con fatica e per questo diventiamo amici subito, perché io non parlo. Io gioco. Sì, io gioco, jeg lege, mica chiacchiere.  C’è Clara, che mangia troppo, è dolce e intelligente. A volte mi da un bacio sulla guancia. 

     Apparentemente ci sono regole per tutto, ma non si vedono subito, si svelano successivamente, come una punteggiatura un po’ troppo ricca, cose buttate li, ma alla fine capisci che vivono di punteggiatura, mentre la struttura della sintassi è scarna.

     Con gli altri pedagoghi e aiuto pedagoghi delle altre stuen non c’è un gran dialogo, anzi non ci si parla proprio, da subito. Molti entrano e nemmeno ti guardano. Questa faccenda dell’indifferenza è in effetti un male e non mi piace per niente; credo sia lo specchio di qualcosa, ma ancora non capisco di cosa.

Suppongo che a ciascuna lingua sia collegato qualcos’altro, un bagaglio, una cultura, una storia Come ho detto quando arrivo è Luglio, molti sono in vacanza.. Il momento migliore per cominciare. Fuori c’è un gran parco e si gioca a varie cose: la sabbia va molto, poi scivolo e altalene, tricicli, secchielli e palette. Maria fa parte del mio gruppo, è spagnola, cioè non lo so che cos’è: ha quattro anni portati come una ballerina di flamenco, con perfetto accento danese e un “Ciaooo Luigi come stai” in perfetto italiano;  il padre è spagnolo ma lavora a Londra e non parla danese, la madre è Georgiana, lavora all’Unicef e parla un po’ di danese, Maria parla danese con i bambini, spagnolo con il padre e russo con la madre. I genitori tra loro parlano inglese non capisco se hanno una cantina piena di valige da aprire, un posto buio dal quale ogni tanto ciascuno tira fuori un pezzetto di storia, o se invece hanno lasciato tutte le loro valige, bauli, libri e tappeti in un aeroporto, o a casa. O in molte case; io capisco questo mondo fatto di molte case. Sono anni che vivo “molte case”. Alla fine sto imparando che una casa è il cuore di qualcuno che amiamo, altrimenti si va solo in depressione. Il senso di casa comincia a perdere quello stigma di cementificato, murato, mattonificato, tegolato, per assumere un suono simile ad un ruscello, un fruscio nello stomaco che dice  come ci sentiamo, ovunque ce ne andiamo,  qualcosa che è leggero e sta in una tasca della giacca.

     Alle 11,30 si pranza, la cuoca triste spagnola, Isidra,  prepara cose, a seconda dei giorni:

lunedì zuppa di patate con un pezzo di pane, martedì panini freddi, mercoledì panini freddi, giovedì pasta al ragù, venerdì riesengrod, cioè riso cotto nel latte con zucchero e panna. Non cambia mai, non fa mai cose nuove, come nulla in fondo, in quel posto. Gli adulti fanno difficoltà a cambiare.

     –Hvad skal vi have til frokost i dag? (Che mangiamo oggi?) Chiede Jeppe; è un rito che si ripete, e come ciascun rito vale solo se è efficace. Lo prendo in braccio –Skal vi gå ned og kigge? Chiedo (andiamo giù a dare un’occhiata?). C’è il foglietto col menu della settimana. Tanto lo sappiamo a memoria. Io inforco gli occhiali con Jeppe in braccio e leggo: – I dag, vi skal…Flagstesteil med chocolade ok skinke og maionnaise…på rutscebaene..(Oggi mangiamo carne di porco con cioccolata, prosciutto e maionese…sullo scivolo). Jeppe ride. – Nej..dice, I dag vi skal suppe..de ved jeg (no, oggi zuppa, lo so bene) dice. Anche lui ripete quel gesto di ogni giorno: i bambini accettano e amano la ritualità, meno la ripetizione, quella è solo dei grandi. Per questo invecchiano, credo.

     Bisogna scendere con un carrello e prendersi le proprie stoviglie e cibo, alle 11,30. Mentre qualcuno degli aiuti pedagoghi apparecchia i bambini sono tutti in cerchio a fare il sammling, ossia la riunione, robe intellettuali: quanti maschietti oggi, e quante femminucce? Chi manca? E adesso tutti quelli che vengono dall’asia possono fare pipì. E così lentamente, ordinatamente e qualcos’altro, si mettono tutti a tavola. I bicchieri di acciaio inox, i piccoli tavoli da otto.. i pedagoghi con le gambe in bocca. Quando è tutto pronto arriva  il capo del dipartimento e con sguardi di gioia mangia con noi, a volte. Tutti in Danimarca devono fare gridolini di gioia mentre assaggiano il cibo, tutti devono lasciare cose nel piatto; i bambini hanno fame e spesso chiedono una fetta di pane in più, ma non ce n’è. – Ma io non posso mangiare come Philip, dico, quello peserà 50 grammi e io 90 kg. La risposta è semplice e a culostretto – Questi pasti vengono forniti dal governo danese e gli adulti non sono contemplati. Così gli adulti, nella pausa caffè, si rimpinzano di dolci e torte al cioccolato. Io nella pausa caffè mi faccio un espresso al bar Pixel, solo che costa 25 corone, un lurido espresso, più di tre euro. Ogni tanto mi porto un ragazzino e ci facciamo un cornetto extra. Finito di mangiare   sparecchiamo, laviamo i tavoli, portiamo i carrelli in cucina e spazziamo per terra.

     Negli ultimi tempi, la cuoca triste, aveva mosso, lamentosamente, una richiesta di cooperazione, una negoziazione depressa: i piatti le sarebbero dovuti ritornare già sciacquati e a turno qualcuno sarebbe dovuto andare a mettere a posto la cucina, perché lei era stressata ed aveva bisogno di stare con i ragazzi. Ho pensato che in Spagna, con una disoccupazione al 50% forse le avrebbero suggerito di cercarsi un altro posto.    

     Dopo pranzo, alle 12 si va fuori, si gioca, si corre, si fanno cose. E’ fuori che si incontrano i bambini che arrivano dagli altri gruppi, ed è lì che si forma uno spazio sociale, un luogo a volte di scontri, un luogo di assenze e predomini, di solitudine e di invenzioni; guerrieri e trolls, autobus e semafori, costruzioni con la sabbia e lotte violente a chi è il più forte. Mi chiedono di farli dondolare sul dondolo fatto di copertoni: io non resisto e attorciglio le catene per dare un’impronta a giro e loro urlano di gioia. Ma arriva Lajla, il mio boss, che non vuole che si usino i dondoli oltre il loro uso primario, cioè palloso, ripetitivo, adducendo il motivo che le catene potrebbero rompersi.

     Lajla è il limite dell’indifferenza, è qualcosa che non dovrebbe più stare li, che ha fatto il suo tempo; l’indifferenza è la peggiore delle armi in campo psicologico, e lei rappresenta questa indifferenza totale, assoluta, compensata da regole, regolamenti, prescrizioni severe, inutili, sovrabbondanti. Lajla è assente, canta a squarciagola in modo nevrotico, ride, ma non gli frega niente, di niente. Ma è presente, nulla le sfugge, è un’indifferenza di fine carriera, e un’attenzione da radar. Ma dovrà lavorare ancora per molti anni.

     Ho portato alcuni bambini al museo dell’arte moderna, a più riprese, a gruppi di tre; ho fatto dei filmati su questa esperienza; nessuno ha chiesto nulla; poi ho cercato di trasmettere ai bambini dei concetti sull’arte, qualcosa che li facesse uscir fuori da quel piattume della mamma e del papà dalle lunghe zampe su un foglio bianco, con un po’ di porporina; ho provato, non a spiegare, ma a fare delle composizioni sullo spazio e il tempo: sul tempo ho provato con gli strappi di Nino Rotella, con dei collage a strappo progressivo in cui si intravedeva il passato…con lo spazio sono partito dai tagli di Lucio Fontana, a cui ho applicato sulla tela pennelli, fili e pennelli…come Fernandez Arman. Nessuno ha chiesto; nessuno dei pedagoghi si è minimamente interessato. Eppure l’arte è un modo straordinario di dialogare con i bambini. L’invenzione, la scoperta. Sembrava una gara di indifferenza: chiunque passava guardava dall’altra parte. Allora un giorno ho dipinto uno stupido pesce colorato sul muro di fronte ad Alfredstuen e tutti hanno fatto.. wow! .

     Ma non mi sono lanciato in corsi di pittura con porporina: dentro di me, avevo deciso di non produrre  arte, perché, a mio parere, ce n’è in giro già troppa, e l’idea del solo emettere un ennesimo pezzo di carta scritta, o un  ennesimo quadro o tela colorata, mi facevano pensare che l’arte non fosse più la trasfigurazione del mondo tramite l’autocoscienza, ma la sepoltura del pianeta sotto montagne di carta straccia. Volevo dire anche questo ai bambini.

     C’è un’altra cosa sullo spazio che volevo dire: mi sarebbe piaciuto scrivere un libro che non inquinasse il pianeta, e quindi avrei scritto un e book direttamente; ma pensavo che a riempire uno spazio virtuale con un infinito in espansione sarebbe stato anche peggio. Milioni di turisti che leggevano cose inafferrabili, dimenticando, e in questo infinito spazio di memoria si celava la fine, ossia le infinite pliche del finito. La fine di ogni trascendenza.

     C’è un tizio Bjarne ha vent’anni e coltiva fiori in primavera: mette le piantine e si da alla pacciamanatura; alcuni bambini lo osservano…oppure si sdraia sul prato a leggere una favola…è uno di quelli che non saluta. Ogni tanto va dal boss a lamentarsi che non dorme, che beve troppo, che si è svegliato triste…e il boss che è una donna di mezza età molto sensibile all’avvenenza maschile, lo ascolta con pazienza e amore. C’è Nicky che ha quarant’anni, è un pedagogo, è stato uno skater campione del mondo…e ha la crisi del quarantenne skater…ma siccome è pelato e non è così avvenente…Nicky è un lamentoso per il boss….c’è questo nepotismo estetico di pessimo livello, perché fa passare che solo bellezza e avvenenza possono tutto….fa sempre parte di quella sgradevole sensazione che ho avuto in principio…..di quelli che non salutano…di quelli che ignorano….non so, forse strada facendo capirò meglio.

     Il rapporto è triplice, con i bambini, con i pedagoghi e lo staff in genere, con i genitori. Con i bambini il rapporto è semplicemente vero; devi stare a galla ma loro sono disponibili a passarti un salvagente, in qualsiasi momento. Si dice, …che le sindromi da ADHD siano del 25%. Attention Disorders and Hyperactivity Deasease. Nella mia stuen, Lajla è il capo: se gli dici che domani porti due bambini a capo nord ti dice, Ok, non c’è nessun problema, poi, quando sei tornato da Capo Nord, non ti chiede come è andata. Ma, questo assoluto ignorare deve essere bilanciato da  iper – regole, e la sua vita e quella dei bambini è regolata su ogni centimetro quadro di orizzonte, su ogni millimetro cubo di onda del mare, con il risultato che il cielo è pesante, plumbeo, gravoso, dove lei si richiude a volte, come gli angeli che chiudono le ali, e si addormenta in un silenzio di isolamento assoluto. Si addormenta proprio, chiudendo le braccia e gli occhi.

     Angeli caduti sono molti anziani pedagoghi, angeli che hanno perduto la spinta in volo, che non sanno più giocare; per un angelo pedagogo caduto non ci sono essenze, ma solo cose, e l’angelo si pone come soggetto in rapporto alle cose, mentre l’Assoluto è solo quando l’Angelo e il suo fare, il suo muoversi e il suo ascoltare, non cercano alcuna essenza, poiché per superare la contraddizione angelo vecchio che chiude le ali – bambino, egli  deve divenire senso. Solo nel senso e non nell’essenza della cosa, troverà la perfetta identità con ciò che è e ciò che fa, superando ogni contraddizione tra vecchio e bambino. Credo che i nonni questo lo sappiano, i pedagoghi non lo so.

     Ma un discorso sul senso può apparire complesso in quei luoghi di gioiosa segregazione e preparazione a divenire gioiosi adulti. Spesso, anzi sempre direi, il problema si risolve con i soldi; Yaqub abita lontano, è un bambino somalo di 5 anni: ogni giorno Yaqub arriva e se ne va in Taxi. Paga il comune. Noi siamo affascinati da queste forme di super-efficienza della macchina statale,  …. appunto…ma non vediamo, o non riusciamo a comprendere, che il danese pagando il Taxi a Yaqub, pretende da lui in un qualche modo una totale e completa resa culturale, un’alienazione della  storia e della  narrazione antica.

     In fondo l’essenza dell’adulto danese è la gioia, anzi la frase leitmotiv è qualcosa come – Ma perché sei arrabbiato, se la vita è così meravigliosa e così corta?. E dicendo questo si presuppone siano felici, ma, a mio avviso non lo sono affatto, direi piuttosto che sono inebetiti

dal presente, mentre i ricordi sono come sassi rotolati in uno stagno, ma non sono più la parte più sbiadita della nostra vita, bensì milioni di fotografie in cui tutti sorridono…anche i ricordi così, hanno saccheggiato il rammemorare, quello dei vecchi o quello dell’amore, senza verità (poiché tutti ridono) senza spessore (poiché se tutti ridono qualcosa deve farli ridere…ma cosa); l’essenza dell’agire è portare a compimento, scriveva Heidegger, ed in questo ossessivo portare a compimento, tutto è compiuto….. e questa è la sensazione più profonda….il presente con i suoi piccoli e monotoni riti, il futuro che è un piccolo futuro ed è un piccolo domani…la prossima riunione, il prossimo natale, il prossimo menù e le prossime ferie…..

          Tutti devono essere felici, e la felicità è un imperativo assurdo e ridotto all’osso. Io non sono così, penso, non ci riuscirei mai. Tutti usano parole misurate, non si urla e non si perde la pazienza. E dunque ho cercato altre essenze che non fossero quelle dell’agire, ma semmai dell’inter-agire, o altre ancora come le essenze del giocare, come l’essenza della malinconia, o della disattenzione, ho cercato e frugato tra le frustrazioni degli adulti e le aspettative dei bambini, tra il monotono e ripetitivo riprodursi delle proposte noiose dei giochi adulti, inventati e fatti da adulti, e il farsi oggetti dei bambini, fino alla trasmutazione. L’adulto ripete il bambino, in stato di grazia, trasmuta. L’adulto gioca all’uomo ragno, il bambino diventa l’uomo ragno.

          E come connettere gli iperdesideranti, gli iperdelusi, i disperati, perché c’è la disperazione nei bambini, con gli affettuosi e ripetitivi riti che dovrebbero essere…cosa…terapia? Perché non insegnano nulla di empirico e neppure di senso….Ho cercato di dare nuovi  sensi a oggetti che avevano solo un significato. Avete mai guardato uno scivolo? L’avete osservato bene. Beh…uno scivolo non è una cosa che serve per scivolare, ma semmai è una continua e ripetuta sfida alla gravità. Un bambino che scivola, semplicemente, è deficiente o ha qualcosa che non va. Uno scivolo può essere un ottimo esercizio per salire verso l’alto, per salire  stando sui bordi, per salire portando oggetti, oppure può essere un luogo per testare materiali, come lanciarsi in discesa seduti su un camioncino di plastica porta sabbia della Toys, di quelli che si usano nei sandbox d’estate. Uno scivolo è un luogo dove trasportare oggetti pesanti, dove salire in quattro, dove correre e poi lanciarsi verso la parte più alta. Se poi lo scivolo ha la torretta, questa è un luogo di discussione; da uno scivolo, se proprio si scivola, non si scivola mai da soli, ma almeno in tre. Adrian, che aveva delle difficoltà a camminare e a muoversi, considerava lo scivolo dove il luogo per salire tramite la scala a rete ed era lì e solo lì la sua sfida con lo scivolo; lo scivolo in se era solo un modo per tornare giù e riprendere la sua lotta con la rete.

          Uno scivolo è un luogo da riempire di terra e fango e ghiaia quando piove. Così il pedagogo si scoccia. Insomma l’essenza dello scivolo non è scivolare, ma sfidare la gravità. Infatti gli scivoli, non scivolano.

     Tanja è una giovane pedagogmedajaelper, un aiuto pedagogo, che lavora in quel luogo da anni; Tanja è assente, scocciata, è sempre malata, c’è il meno possibile; non saluta se è contrariata ma saluta se non lo è. Parla, parla ininterrottamente e con i bambini è severa, castrante, è un super-io poco credibile perché poi si frega sempre il pane della zuppa quando non ce n’è. Tanja è triturata dall’ignoranza e dalla mediocrità, che in un ambiente così indifferente, quale è quello del kinderheim, si traducono in assenze, in luoghi di non senso in un eterna sfida che cerca attenzione…ma è nell’attenzione che si cela un problema notevole; in un mondo in cui  cerchiamo di ampliare le nostre coscienze includendo l’auto coscienza dell’altro, cercando così di eliminare la differenza includendola in noi stessi, in un mondo dove questo è almeno evidente, loro curano la differenza con l’indifferenza che è l’arma più devastante per i deboli, i sensibili, i fragili.

     Nicki Carrero credo sia il suo nome: un pedagogo piacevole, buono ed educato, anche affettuoso; è una delle prime persone con cui ho parlato al Kinderheim; lavoriamo sullo stesso piano, io sono Alfredstuen, lui è Birkestuen. Un giorno sento che tutti lo abbracciano e lo salutano. Chiedo che è successo. Se ne andava sei mesi in maternità. E non mi aveva detto niente. Ho provato…esclusione, emarginazione…ma diamine un collega che probabilmente non vedrò più non mi avverte che se ne va….strano mondo questo della indifferenza. Una differenza che non esiste dovrebbe portare ad una sorta di eguaglianza, ma non è così, è diversità con cui non ci si comporta perché non si sa come comportarsi. Come ci si comporta con Luigi? Lo dico o no che vado in maternità? E l’indifferenza assoluta prevale, probabilmente – Tanto non lo rivedrò più, quindi che lo saluto a fare?

     Poi Iolanda, olandese tedesca, pedagogo di Krausestuen, fondamentalmente incazzata perché non si inserisce nella società danese, mentre io sono preoccupato di come farà la società danese ad inserirsi nella sua, ma questo passaggio ancora non lo vede. Iolanda non saluta per distanza, perché lei deve mettere una distanza. Iolanda polemica ma in gamba, considera Krausestuen un luogo a parte, uno stato indipendente. Ma nemmeno lei saluta; poi si tira dietro quell’improbabile cartone animato di Bjarne, ventenne carino, viziatello e arrogante che non saluta mai.

Iolanda è sposata con un mio amico, Hernst che insegna psicologia a Roskilde; come coppia hanno deciso che il loro scopo di vita è una lotta senza quartiere contro i videogiochi, e promuovono ricerche improbabili che cercano di farsi finanziare. Un giorno lascio il mio Iphone a Oscar, un delinquente di cinque anni, e lo lascio giocare per un po’. Iolanda mi fa una ramanzina; rispondo che dovrebbe essere più elastica, è troppo tedesca. Urla che i videogiochi fanno malissimo. Spiego che non ha compreso il senso vero di quel gesto: io ho affidato ad Oscar, delinquente di cinque anni, il mio preziosissimo e costosissimo telefono, e facendo questo l’ho trattato come ometto di cui mi posso fidare. E’ sulla fiducia che si sta giocando la nostra partita, non sui videogiochi. Iolanda è perplessa e naturalmente non mi saluta per una settimana. Ma un giorno in cucina mi prepara un caffè fresco, e capisco che è passata.

          Il non saluto è la negazione di qualcosa; nel mangiare, nel cibo, è molto più quello che non si può fare di quello che è permesso. Tuttavia è consentito lasciare cibo nei piatti, è permesso sprecare ingenti quantità ogni giorno in nome della buona conservazione.

          Ci sono bambini la cui storia non è Danese e il cui Danese è solo un mezzo di comunicazione, ma non è cultura; Yaqub di padre somalo e madre degli emirati. Ha un viso bellissimo, intelligente, ricorda Sidney Poiters, o forse Harry Belafonte; Yaqub ha disordini dell’attenzione ed è iperattivo, è un iperdesiderante e non sa interagire; è inafferrabile, non può giocare con gli altri e quando mangia fa strane cose: non mangia ed è magrissimo, e a questo associa urla feroci, oppure si butta sotto il tavolo. Costruisco una forchetta Stukas, un aereo di carta con simboli della morte in cui si infila in una forchetta che vola e faccio lunghi decolli e cabrate prima di imboccarlo: così posso imboccarlo senza che gli altri lo prendano in giro dicendo che lo sto imboccando. Quando passa lo stukas in mezzo al tavolo, trasportando non so, mezza polpetta, ci sono otto bocche spalancate che aspettano il cibo, otto aeroporti pronti ad accogliere l’oggetto volante. Faccio il rumore dell’aereo in cabrata e della picchiata sconvolgente dello Stukas e alle volte sbaglio, e atterro sulla fronte, e tutti ridono. Meno i pedagoghi o gli aiuto pedagoghi; a tavola non si ride.

     C’è Elias i cui genitori sono separati e vengono dal Marocco; Elias parla un ottimo danese, ma è aggressivo in principio, arrabbiato e colpisce alla schiena e poi fugge. Che Elias non sia danese e che non c’entri nulla con quei luoghi, come Yaqub del resto, lo si vede dal modo che ha di muoversi. Lui corre veloce , inseguendo una palla, salta come potrebbe farlo un bambino alla periferia del Cairo, come uno dei ragazzi descritti da Nagib Mahafuz; Copenaghen è un accidente, e mi rendo conto che noi manteniamo la  nostra gestualità che va oltre il linguaggio, in qualsiasi luogo andiamo, gesti e movimenti ci restano appiccicati come la foto su un passaporto. Forse è questa una chiave. Fingerprinted. Impronte digitali. Qualcosa nel nostro corpo e nei nostri movimenti dice chi siamo e delle antiche situazioni. (at traede i karakter).

     Alcuni bambini sono cinesi, un altro Nickolas è groenlandese di madre: lui ama danzare, e mi fa vedere come si muove alla Nureiev o alla Barishikof in una perfetta sequenza del lago dei Cigni. Tre anni.

     Jamie è di madre del Bronx e di padre danese. Se gli parlo in inglese lui non risponde. Jamie è una macchina da guerra selezionata: un marine. E’ cattivo e spietato, ha lo sguardo da Mike Tyson prima di colpire qualcuno alle spalle. E’ resistente a qualsiasi sollecitazione fisica, anzi ride se lo sbatacchi un po’; ama il non limite; per salire sullo scivolo lancia con precisione prima tutti gli oggetti che gli potranno servire. In triciclo ci va ad una velocità vertiginosa, schivando aiuti pedagoghi e genitori, ma non accadono mai incidenti. Jamie provoca, si appropria di tutto con decisione e violenza; questo all’inizio. E’ un duro e spaventa gli altri. Ma è nel gruppo di Nicky e Mille che sono meno ossessionati dalle regole. Lasciano fare alla natura. Jamie non ha capito che nel suo gruppo c’è Oscar (quello del telefono) un buonissimo vero teppista di Copenaghen, uno che ha la struttura fisica di un adulto e che se vuole ti atterra con un buffetto; Jamie è sempre arrabbiato, Oscar ride sempre. Un giorno Jamie incontra le resistenze di Oscar e Marcus che lo atterrano senza mezzi termini e lo lasciano secco, e furibondo. La rabbia si trasforma in gioco violento e ci si mette anche Elias. Allora Jamie picchia Elias ma è troppo veloce e viene picchiato da Oscar e Marcus. Quel giorno alcuni equilibri hanno ricominciato a sistemarsi.

     I bambini con fratture profonde nella storia familiare, sono in genere violenti, rabbiosi. La prima fase è di guerra, devono imporre la propria identità confusa, e lo fanno con la forza, ed è la fase in cui i genitori sono disperati, la seconda è di decostruzione, per cui piangono sempre, e la terza, quando riesce, è di perfetta e felice armonia con il gruppo.

          Matthis è obeso. Ha la massa di un alano quando lo prendi in braccio. Lui non mangia, si preoccupa solo della seconda porzione. Poi la terza, poi lecca il piatto. Matthis ha gli occhi spalancati e non si concentra su nulla. Mi prende per mano e mi porta per ogniluogo. Un giorno  freghiamo una cassetta della frutta vuota in cucina e la usiamo come sgabello da mettere sotto lo scivolo; parliamo. Nevica, ma li sotto non ci bagniamo. Mi dice che il papà è andato negli USA ma che tornerà per il suo compleanno, che è stato una settimana fa, ma non fa niente, e che il papà ha promesso che quando torna guarderanno la televisione insieme. Mi parla di Ida, la sorellina che va all’asilo nido e della mamma, che lavora sempre.

     Il primo gioco che faccio è il treno; tutti i bambini danesi oltre al Lego hanno il treno di legno, con binari di legno, scambi di legno, ponti, curve, incastri e vagoncini e locomotive di legno. C’era un dialogo in danese che ascoltavo mentre andavo in bici al lavoro si intitolava Alla stazione…e parlava di una signora noiosissima che si presentava a tutti chiedendo della figlia e che alla fine chiedeva un passaggio a casa….ma questa lezione, queste parole, i termini, mi hanno aiutato con Jeppe a giocare al treno…e piano piano ci siamo messi a metter binari e stazioni per terra…mentre Jeppe non costruiva assolutamente nulla, ma si appropriava immediatamente di metri di gioco, facendo rumori ed entrando in questo mondo. Poi August, bambino triste, ha preso a giocare con noi. Poi Sixten che passava i pezzi e risolveva complicate connessioni…sì, perché a volte c’era da pensarci un attimo. Poi Matthis che prendeva un binario e dopo cinque minuti si stufava…

     Provo con il treno.

     L’essenza di un treno non è un treno, questo è certo: l’essenza del treno sono scambi e connessioni, e tramite questa sostanza ci siamo conosciuti, e hanno preso a giocare in molti, senza scontrarsi. Il mio ruolo era questo: creare nuove strade, nuove possibilità, dare a ciascuno l’opportunità di girare al momento giusto lasciando passare l’altro. Io mettevo binari e risolvevo scambi e loro, man mano che aumentavano le possibilità, aumentavano di numero; alle volte i problemi logistici erano complessi. Un bambino di tre o quattro anni riesce a fare un singolo circuito. Al primo scambio che porta verso un’altra strada si perde e si interrompe. E si ferma. Jeppe aveva trovato un escamotage: quando finiva il binario faceva andare il treno sul pavimento, trasformandolo in treno regionale, regionel tog. Per mesi abbiamo lavorato al treno. August se ne stava sullo stipite della finestra a guardare fuori. O sul divano rosso vestito da lord Fenner di star wars. August è un buco nero: assorbe energie e soprattutto assorbe Jeppe. Quando c’è uno scambio, ossia due binari che convertono su uno….cos’è? Che significa. E’ un binario che si divide in due direzioni o sono due direzioni che diventano una. E’ una separazione o uno scontro, o un’unione. Ognuno la vede in un modo diverso, ed è da questa interpretazione che nascono punti di vista.

     Ho fatto L’Øresund bro, il ponte che collega Danimarca a Svezia. Con due tappeti abbiamo fatto Copenaghen e Malmo, poi il ponte lunghissimo con il mare del Nord pieno di barchette. Poi Yaqub è arrivato e ci si è sdraiato sopra. Allora ho preso il train group, Jeppe, August, Sixten, Matthis, Linne Malu e siamo andati in Svezia sul vero Øresund tog. Ci siamo mangiati un po’ di cioccolate varie e succhi di frutta, rompendo le severissime regole dietetiche. Così, grazie al treno, ci siamo conosciuti e presi le misure.

     Nelle riunioni con i gruppi di pedagogia illustro i risultati delle mie ricerche; sostengo cioè tre cose: il movimento dell’apprendimento, la frattura narrativa, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività come distorsione della struttura del desiderio. Non ho l’impressione che mi capiscano. O forse io mi appassiono quando spiego. Sembrano ubriachi, o che non glie ne importi nulla. Strana gente questi danesi, piccoli, provinciali, maleducati.

     Un desiderio se rimane allo stato di desiderio è una pulsione: se a questo non segue l’impegno e la compiutezza si vive in uno stato di craving, in cui si perde ogni peso e consistenza con gli oggetti e le persone.

     Pedalare, elemento fondamentale è tornarsene a casa a riflettere. Bike, mountain bike, Christiania bikes, con cassetta coperta per portare fino a quattro bambini. Madri coraggiosissime che pedalano a -20, o con tempeste di neve, che arrancano decise con quattro puffi in cassetta; ciascuno dev’essere portato da qualche parte, asilo nido, scuola materna, altro asilo, scuola vera. Roberto enorme padre si Sixten è un virologo che si è messo a vendere limette per le unghie in vetro. Non so perché. E’ successo qualcosa in quella famiglia. Lui è disperato perché quando Sitxen aveva due anni l’ha fatto cadere e battendo la testa Sixten ha perso la parola. Ma adesso parla, male, in falsetto ma parla; dimentica alcune parole ma parla e gioca con Philip. La moglie di Roberto non  ha mai perdonato la  disattenzione, l’aver lasciato cadere il bambino. Il padre di Adrian ha rinunciato ad una carriera per occuparsi del figlio. Il padre di Oscar è sempre ubriaco. La madre di Augusta è vedova e cerca un uomo su internet. I genitori di Jeppe non parlano. La madre di Jamie sorride. La madre di Sarah parla troppo. La madre di Sophia vive di sussidi e passa le sue giornate gironzolando per il quartiere. La madre di Rosalina studia pedagogia e il padre ha aperto un ristorante. Kevin, il padre di Sarah è malato: una lenta, progressiva, demolizione del sistema neuronale e delle trasmissioni nervose, ma è sorridente e piacevolissimo. E decine di altri. Il padre di Yaqub fa il tassista ma è troppo faticoso per cui si è messo in dagpenge, in non impiego premeditato e vive di sussidi statali.  Racconto di Joe Pitone un bambino povero che viveva nel Grog e che rubava buste della spesa nel Gold per dar da mangiare ai bambini poveri. Ma non funziona perché li, a Copenaghen, non ci sono poveri. I sono case essenziali, vite scarne, desideri sensati, ci sono regole seguite docilmente, e genitori che amano i figli. Ci sono problemi da catalogare, persone da incasellare, e ch’è un colore di fondo, un tono sempre uguale: un grigio bianco da prendere con stile. Non c’è cultura, non c’è storia, non c’è radicamento e le identità sono serrate tra la riproposizione di sempre uguale e la riproposizione di tradizioni evanescenti.

     Dal primo dicembre al 23, vengono fatti i preparativi di natale e ai bambini viene ossessivamente ripetuta una storia durante il sammling prima di mangiare, con un pelouche che deve scrivere una lettera, con le calze di natale, i regali di natale, con le canzoni di natale i giochi di natale. Almeno mezz’ora al giorno. Yaqub, Elias, Jonas non sanno neppure cos’è il Natale. Nessuno e mai nessuno ha mai chiesto delle festività in Egitto, in Tunisia in Cina. Nessuno è mai venuto a spiegare il Ramadam, nessuno ha mai parlato del derviscio nel monastero, nessuno sa cos’è un Sura come la Samadiyya. Nessuno sa niente. Ma non si legge Andersen. E’ evidente che ormai è troppo stupido. Ma si continua con orsetti, nevicate, boschi e trolls.

     Un kinderheim è un aereoporto ma non se ne sono ancora resi conto: la gente scambia biglietti di volo e non cultura. Chi includerà chi. Chi insegnerà cosa. Chi sostituirà una cultura inconsistente e nebbiosa come le piane dello Jutland con costruzioni solide, piene di manoscritti, libri e video dell’Europa, dell’Asia, del Nord Africa, dell’India.   Chi oserà tanto. Chi riuscirà a fare il Natale del Mondo, chi proclamerà la parità nella  differenza, l’unità nella molteplicità, lo sviluppo dell’Io come cammino tra infinite storie di infiniti mondi di infinite epoche. Chi la smetterà di insegnare come si mangia e come ci si comporta nel proprio aeroporto. Chi dirà che il mondo è zona franca e luogo di appartenenze e che nessuno ha il diritto di prevalere, comprare e affermarsi con la negazione, ma tutti hanno il dovere di imparare l’altro, il diverso.

     Che fanno a natale in Groenlandia? Non lo so. E’ troppo quello che non sappiamo, è un deserto di sabbia finissima nel quale ci orientiamo solo grazie alle nostre quattro scemenze di Natale, ai nostri quattro libri per bambini. Sì, loro hanno Pippi Langstrom, noi Pinocchio. Ma ce li scambiamo? Penso con sgomento al pensiero che anche noi diventeremo così, sbiaditi, vuoti, evanescenti, grigiastri, disperatamente attaccati a sciocchezze, incapaci di stare soli, con l’ossessione della felicità, il culto della longevità, la sacralità del cibo e nessuna conoscenza di Dio, qualunque esso sia, chiunque sia, qualsiasi cosa sia. Il Dio della mistica, della non ragione, della consapevolezza, della crescita verticale, della percezione, del sensibile, della teosofia, del fare ciò che non abbiamo mai fatto.

     Haendel mi aiuta mentre torno a casa per Fredrickparken sulla mia Kildermoes. Penso che dovrei proporre di  ascoltare Mozart, Tartini, Locatelli, Haydn, perché no. Penso che dovrei cambiare sellino, registrare le marce e oliare la catena. Con il gelo la catena a volte si spezza con secco “clock” e le dita ti si incollano sulle maglie quando cerchi di disincastrare il cavo dal deragliatore. Ho bisogno di chiarezze. Anche di segni.

     Vorrei dipingere un grande quadro, due colori: un ocra scuro passato una volta sola su tavola di cirmolo, dove le venature del legno daranno il senso dei solchi e delle dune sabbiose, e un cielo bianco sempre uguale, con una sottile striscia di mare, una sottile linea scura.

     Lo farò a Tisvilde probabilmente, molto vicina a Gilleleie.

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